NUOVI STILI DI VITA PER ABITARE LE DISTANZE
NELLE PERIFERIE DALLA TENDA ALLA STRADA: FRATERNITÁ IN USCITA

NUOVI STILI DI VITA PER ABITARE LE DISTANZE
NELLE PERIFERIE DALLA TENDA ALLA STRADA: FRATERNITÁ IN USCITA

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Per reazione la parola distanza mi richiama alla parola incontro.

Vorrei collocare questo incontro che stiamo vivendo in una distanza, che ci fa incontrare virtualmente, in un abbraccio molto lontano che le nostre tradizioni di famiglia domenicana e francescana vedono nell’abbraccio tra San Francesco e San Domenico.

Noi oggi abbiamo la grazia di abitare nell’abbraccio che i nostri padri si sono scambiati e in un certo senso riattualizzarlo.

L’incontro avvenuto a Roma tra i due santi, così come narrato da fra Tommaso da Celano:

«Si trovarono insieme a Roma, in casa del cardinale d'Ostia che poi fu Sommo Pontefice, le fulgide luci del mondo san Francesco e san Domenico. (…) I Padri si guardano con affetto, pieni di saggezza (…).

Al momento di separarsi, Domenico pregò Francesco che si degnasse di cedergli la corda di cui era cinto. Francesco si mostrava restio, rifiutando con umiltà pari alla carità con cui Domenico insisteva. Tuttavia, vinse la santa perseveranza del richiedente, che cinse la corda sotto la tunica interiore con grandissima devozione. Poi si presero la mano e si raccomandarono caldamente a vicenda. E il Santo disse al Santo: "Frate Francesco vorrei che il mio e il tuo diventassero un solo Ordine e che noi vivessimo nella Chiesa con la stessa regola". Da ultimo, quando si lasciarono, san Domenico disse ai molti che erano lì presenti: "In verità vi dico, che gli altri religiosi dovrebbero seguire questo santo uomo, Francesco, tanta è la perfezione della sua santità"».

Celano conclude con la preghiera: «Signore! Fa’ che siamo umili sotto le ali di umili maestri, fa' che si vogliano bene quelli che sono consanguinei di spirito, e possa tu vedere i figli dei tuoi figli, la pace in Israele».

Nel capitolo XI del suo libro Storia di San Domenico, fr. Humbert Vicaire o.p., si chiede se i due uomini di Dio si siano mai incontrati. Citando fonti e studi scientifici, egli ritiene che Domenico e Francesco si siano forse incontrati, senza però averne la certezza, nel 1215 presso il Cardinale Ugolino, loro amico. Sembra invece assodato che i due si siano incrociati certamente al Capitolo della Porziuncola ad Assisi nel 1218. Per ultimo, appare abbondantemente confermato dalle fonti storiche il loro incontro a Roma, sempre dal Card. Ugolino, nel 1221.

Abbiamo dunque visto come sia le fonti domenicane che quelle francescane convengano nel ritenere storicamente veritiero l'incontro (avvenuto probabilmente anche più di una volta) tra Domenico di Guzman e Francesco di Assisi. Ma cosa dice a noi, uomini e donne del XXI secolo, figli e fratelli di S. Domenico e S. Francesco? La necessità di anteporre la carità a tutte le possibili divergenze e incomprensioni, il gareggiare nello stimarci a vicenda.

Siamo noi che oggi ci incontriamo qui, nel web, il nuovo stile di vita che riempie una distanza, che non dice: Meglio noi, meglio voi, ma che annuncia: MEGLIO NOI INSIEME!

Nessun carisma vive per se stesso! Domenicani e francescani sono ordini mendicanti, oggi prima di tutto se vivono di questa reciprocità, se si mendicano e si donano reciprocamente il dono ricevuto e questo è ciò che riempie la distanza e crea fraternità.

Per tradizione siamo ordini cugini: sappiamo che ci scambiamo colui che presiede la celebrazione della festa dei nostri Santi Padri, quindi per la festa di S. Domenico celebra un francescano, possibilmente il guardiano e viceversa per la festa di S. Francesco celebra possibilmente il priore del convento domenicano.

Viviamo quindi in fraternità come fraternità allargata questo incontro e questa è la premessa e l’unica condizione per parlare di fraternità in uscita: il fatto che la stiamo vivendo noi.

CHE COS’È LA PERIFERIA?

Questa espressione di papa Francesco ha avuto una grandissima fortuna, e ormai è ripetuta ogni volta che si parla dell’evangelizzazione o della presenza dei cristiani nel mondo, perché indica gli estremi confini, là dove forse i credenti non vorrebbero andare. Questo termine estremo dell’evangelizzazione sia però già presente nelle sante Scritture sotto altre forme: “le isole lontane”, “gli estremi confini della terra”

Ascoltate la parola del Signore, popoli, annunziatela alle isole lontane e dite:

«Chi ha disperso Israele lo raduna e lo custodisce come fa un pastore con il gregge». Ger 31,10

In particolare, è il Vangelo, è soprattutto il Signore Gesù a indicarci, attraverso i suoi incontri con uomini e donne, dove sono riconoscibili gli estremi confini, le periferie esistenziali: è Zaccheo, è la donna adultera, sono i pastori (persone periferiche rispetto alla storia) a cui si manifesta per primo, è la Samaritana, sono i lebbrosi (emarginati della società) …

Periferia dal greco periphéreia deriva da periphéro "portare intorno", parte estrema, contorno, bordo. Significa fare attorno, sta attorno ma è collegata.

Oggi le periferie sono spesso luoghi di degrado. Ma che rapporto c'è con il centro?

  1. Ciò che sta attorno a noi, non vuol dire andare per forza lontano. Vivere le periferia significa accorgersi che attorno a noi ci sono persone e situazioni che fanno fatica a stare collegati con il centro, dove si forma la vita, e creare con loro relazione.
  2. Periferie dentro di noi. Abbiamo tutti un centro, che è un luogo fisico ma più spesso figurativo dove ci sentiamo a casa. C’è poi in noi un “centro storico”: i nostri affetti più cari, mamma, papà, familiari, amici. A questo pensiamo quando vogliamo sicurezza e amore. Lì troviamo calore e la certezza della nostra esistenza.

Ma poi ci sono anche le periferie. Tutti abbiamo fatto tentativi non riusciti, abbiamo abitato luoghi e relazioni che poi abbiamo abbandonato. Sono tutti pezzi di storia più o meno lunghi che non consideriamo centro ma che sono comunque parte della nostra storia. Sono le nostre periferie, che ci fanno paura.

Chi vive la periferia cerca di riconciliarsi con la propria vita e non considera il fallimento come distruzione o come una cosa da dimenticare. Gesù passa nelle nostre periferie e ci dice di non aver paura e di ricominciare. Fosse per noi distruggeremmo le periferie, ma Gesù non butta via niente recupera tutto e ci dice che tutto può essere trasformato in bene, in vita, in futuro.

È la fraternità o la sororità che ci stabilisce quali persone e soggetti, perché nessuno può diventare soggetto, può umanizzarsi, senza la relazione con gli altri. 

Quando incontriamo l’altro, spesso ci interessiamo più al suo peccato che alla sua sofferenza e alla sua fatica di vivere, e questo non è secondo il Vangelo! La periferia spirituale o esistenziale in cui l’altro abita è scoperta da Gesù nell’incontro. È da Lui abitata!

“Lazzaro, vieni fuori!”

“Andate per le strade, in tutto il mondo”

“Donna vai a chiamare tuo marito”

E’ solo un assaggio dei tanti inviti di Gesù ad uscire, ad abitare la periferia esistenziale.

Come Chiesa e gente di chiesa siamo abituati a sentirci al centro.

“Venire in chiesa” diciamo. Mentre Gesù ha detto: “Andate!”.

Noi diciamo: “quella persona non viene in chiesa” cioè c’è un centro, la chiesa (in effetti anche geograficamente la chiesa nel paese era posta al centro), noi ci poniamo lì dentro e gli altri, se vogliono essere bravi come noi, devono venire lì.

La chiesa deve innanzitutto sentirsi non al centro, bensì decentrata (come Gesù, che parlava di sé quale “Figlio dell’uomo” sempre alla terza persona, mettendo al centro solo l’annuncio del Regno di Dio!). Va riconosciuto che questo movimento, come non è facile per ciascuno di noi, non lo è neppure per la chiesa, che è tentata di porsi al centro, di attirare a sé gli uomini e le donne, di sentirsi soddisfatta e “introversa”, o a volte assediata e dunque paurosa.

La prospettiva dalla periferia è diversa, è stimolante, è grintosa.

Stando ai confini avverti che la periferia spinge verso il centro, ha una forza che ti carica. Dà grinta e non troppa diplomazia.

Non si tratta di “fare la carità”, ma di vivere la carità evangelica che non è solo donare e condividere i beni, ma è innanzitutto prossimità per incontrare, per poter ascoltare, per poter accendere una relazione nella quale poi operare con responsabilità e amore, secondo i bisogni di chi incontriamo.
La prossimità è essenziale all’evangelizzazione e quindi alla diakonía, alla carità. Occorre decidere di farsi prossimo, di incontrare l’altro, superando precomprensioni, pregiudizi, fatiche e diffidenze. L’altro è sempre un fratello e – possiamo aggiungere nella fede – “un fratello per il quale Cristo è morto” (1Cor 8,11).

Chi di noi non conosce periferie esistenziali, chi di noi non ha transitato in esse almeno una volta nella vita (nella malattia, nella separazione, nella solitudine…) o prima o poi non vi transiterà? La sofferenza causata dalla morte, dalla malattia, dalla povertà, dal peccato non può essere rimossa; non per fatalità, ma perché noi uomini non siamo capaci di salvarci, e per questo Gesù ha detto: “I poveri li avete sempre con voi” (Mc 14,7; Mt 26,11; cf. Dt 15,11).

La povertà ti cambia, la fragilità e l’impotenza di cui stiamo facendo esperienza, che sperimentiamo attraverso la pandemia che fa vivere la precarietà, la crisi, ma sarà sempre presente sulla terra… 

Ciò che stiamo vivendo è un’Epifania, cioè una manifestazione piena totale, universale di ciò che è la nostra umanità: fragile, precaria, creaturale in quanto siamo creature e non creatori.

Quando i Magi sono giunti a Betlemme hanno visto la piena manifestazione dell’umanità di quel Dio che cercavano tra le stelle e invece era…nelle stalle! Dalle stelle alle stalle!

Infine, vivere la prossimità anche con questa consapevolezza: che noi non abitiamo a Gerusalemme mentre gli altri abitano a Sodoma e Gomorra; che noi non siamo quelli che vanno nelle periferie esistenziali solo per fare la carità, ma perché le conosciamo in prima persona. Tutti, infatti, siamo sofferenti per il peccato e la fragilità umana, tutti siamo in attesa che il Signore ci visiti nella nostra periferia esistenziale.

Noi NON ANDIAMO ALLE PERIFERIE, MA ABITIAMO LE PERIFERIE.

Siamo gente periferica sensibili alle periferie esistenziali delle altre persone.

Gesù ha molto insistito su questo aspetto; possiamo dire che ha precisato lo STILE DEL DISCEPOLO, che si è dilungato nel tratteggiarne i caratteri, molto più che sull’oggetto della buona notizia, come appare dai suoi invii in missione (cf. Mc 6,7-13 e par.; Lc 10,1-16). Questo perché il Vangelo non è tale solo per il contenuto ma PER UNO STILE ADEGUATO DI ANNUNCIO coerente con il messaggio stesso. L’azione caritativa dei discepoli non può essere solo un fare il bene, ma è un’azione che anche nelle modalità con le quali è esercitata mostri la carità di Dio, dica CHI E’ DIO. Su questo occorre sempre fare una revisione, operare un discernimento: lo stile è adeguato all’opera che si compie?

In questo i nostri carismi hanno molto da sostenersi reciprocamente: noi tendiamo a dire, ad annunciare siamo “predicatori”; voi forse a fare “strumenti di pace, operatori di bene”. Doniamoci uno sguardo a specchio, doniamoci di rivederci gli uni negli altri per rendere complementari i nostri carismi.

Non è necessario aggiungere luoghi, aggiungere azioni quanto piuttosto assumere la povertà come stile.

Una chiesa povera, una chiesa può essere per i poveri e agire per i poveri solo se è lei stessa povera; e il cristiano, il discepolo, quale soggetto che si indirizza ai poveri, deve lui pure essere povero e non tanto povero di soldi, ma povero di spirito, povero di sé, svuotato di se stesso. “Svuotò se stesso”.

Uno stile povero attiva la creatività, la combinazione creativa delle risorse.

Quale periodo più opportuno di quello che ora viviamo nell’impotenza, nella precarietà, nella fragilità perché un microscopico virus ha mandato in tilt tutti i nostri sistemi?

Una chiesa e dei cristiani che non si impongono ma propongono con mitezza e dolcezza; ecco allora dei discepoli di Gesù che non si sentono assediati né militanti di fronte a una società avvertita come nemica e condannata; ecco un’azione caritativa che non ama epifanie né dare facili testimonianze. La Parola dice che “i violenti si impadroniscono del Regno. Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono. …E se lo volete accettare, egli è quell'Elia che deve venire. Chi ha orecchi intenda” Mt 11,11-14

La prepotenza e alla violenza generano altra violenza. Oppure davanti alla violenza c’è solo l’impotenza …c’è solo da stare! Come ha fatto Gesù!

Annuncio è denunciare le ingiustizie, “gridare come una partoriente”, è non tacere “per amore di Sion” (cfr don Peppe Diana “Per amore del mio popolo non tacerò”). Ma è anche saper tacere come Gesù davanti a Pilato e poi sulla croce.

Per abitare le periferie occorre prudenza e sapienza per comprendere quando è ora di gridare e quando è ora di tacere. Prima di abitare a Napoli Quartieri Spagnoli, mi sentivo un paladino della giustizia, dicevo che bisogna denunciare le ingiustizie e pensavo di essere pronta a farlo. Quando ho sentito le mani sul collo di un vicino di casa che pretendeva di fare sul nostro tetto un illecito, ho provato la rabbia che è diventata per me energia di alzare la voce fino a fargli abbassare le mani: l’ingiustizia mi ha fatto gridare.

Ma quando vedevamo i genitori dei nostri bambini chiaramente compromessi in traffici illeciti, abbiamo spesso scelto di tacere, non per vigliaccheria, ma perché non avremmo risolto nulla, forse solo ci potevamo sentire delle eroine, ma noi non siamo collaboratori della giustizia, ma edificatori del bene e quindi abbiamo preferito prenderci cura dei loro figli. La cura amorevole, gratuita, senza ritorno, ma solo in perdita, per colmare per vuoto educativo che la loro assenza e il loro impegno in altri fronti creavano nei loro figli.

I figli “nu pezz e’ core” dite a Napoli: abbiamo scelto di ripartire da quel pezzo di cuore, dove la nostra vita e la loro poteva incontrarsi nella reciproca compassione. Un frammento di speranza su cui investire…vuoto a perdere!

“La verità parla quando è ora di parlare e urla con il grido della pazienza, quando è ora di tacere” dice S. Caterina da Siena.

Umile presenza davanti a forme di presenza forti e aggressive, che invitano ad assumere toni arroganti e ci inducono ad atteggiarci come profeti di sventura.

“NOI CI SIAMO…CON TE” neanche PER TE. Anche il PER TE può rischiare di essere presuntuoso, arrogante, superbo.

Così si pone la nostra presenza come comunità all’interno dei Quartieri Spagnoli (Dario mi ha chiesto di fare riferimento alla nostra realtà di Napoli) “…e il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi”. Celebrazione vivente del mistero dell’incarnazione = CI SIAMO

  • Presenza
  • Visita alle famiglie, malati, …presenza in parrocchia …condivisione con i poveri…
  • Attenzione ai minori: Associazione Efraim: progetto Casa Efraim e doposcuola

QS una sacca nel centro storico: ghetto, diversi, senso di esclusione.

Vivere la periferia significa far diventare centrale ciò che è apparentemente periferico come fare la spesa, vivere la casa, incontrare la gente per strada, buttare la spazzatura…

Vivere la periferia è abitare i contorni della vita e condurli verso il centro della mia esistenza.

Qual è il centro rispetto al quale esiste una periferia?

Siamo chiamati a “decentrarsi” “uscire” verso le periferie? Nel linguaggio sociologico troviamo da una parte dei centri di attrazione dove si raggruppano attori di primi piano, ricchezza, informazioni, creatività, ricerca, capacità di decisione e dall’altra parte spazi (le periferie) meno dotati, poco capaci di dare impulsi, luoghi di in cui sono relegati coloro che non trovano spazio altrove. Nel linguaggio del papa le periferie non possono essere opposte ad un centro, che sarà un polo di creatività. Al contrario nel pensiero del Papa, l’altro della periferia (il centro) è esso stesso uno spazio segnato da tratti di morte.

Perché l’unico centro è Cristo stesso che si è fatto periferico rispetto a tutti.

La Chiesa è chiamata ad uscire da se stessa e andare nelle periferie, non solo geografiche, ma anche nelle periferie esistenziali: dove alberga il mistero del peccato, il dolore, l’ingiustizia, l’ignoranza, dove c’è il disprezzo dei religiosi, del pensiero, e dove vi sono tutte le miserie. È chiamata a ESSERE PERIFERICA, a percepirsi sempre al confine.

San Domenico voleva che le sue case fossero sulle mura delle città (cfr Tolosa), perché fossero dentro le mura della città, quindi appartenenti a quel popolo, ma anche toccassero sempre ciò che sta fuori, perché i frati si sentissero provocati da ciò che sta fuori, perché non si sentissero troppo dentro da non comprendere più chi sta fuori.

C’è un numero delle Costituzioni della mia Congregazione che dice:

“Contemplando Gesù che muore fuori di Gerusalemme e guardando a Madre

Gérine che conclude come esule la sua vita, con audacia e senza paura di

rischiare, ci poniamo come presenza di misericordia e di verità accanto a

chi si sente lontano da Dio e si considera separato, come manifestazione

dell’amore della Chiesa verso ogni uomo.”

San Tommaso con la sua filosofia e teologia si è posto in una zona di confine e il suo pensiero è ancora oggi al centro del Magistero della Chiesa. Il problema è di chi si trincera dietro il pensiero di S. Tommaso e segna confini definiti (“S. Tommaso dice…S. Tommaso afferma…” ) che in realtà spinge sempre oltre, sempre fuori.

È uscire dalla presunzione di essere sempre dalla parte della ragione, che sono brava perché vado in chiesa. È imparare dalla vicina di casa che non va mai in chiesa perché assiste da anni un malato, da quella che mi sto chiedendo come aiutare, chiedendomi prima cos’ho da imparare.

È leggere il Vangelo non solo sulla carta della Scrittura, sicuramente anche lì, ma per riconoscerlo e imparare come si vive, sentirne il profumo mentre dalla finestra vedi una zia che si è presa cura del nipote che non ha i genitori, da una mamma che ha perso il marito morto di cancro rimasta con 3 figlie piccole e che in questa tragedia ha coltivato il desiderio di Dio e lo sta cercando, contemplando la forza di chi ha perso un figlio e continua a vivere…incontrando, ascoltando, stando.

Dalla TENDA…

La prima lettura di questa mattina tratta dalla lettera agli Ebrei parlava proprio di diversi tipi di tende:

  • la prima, costruita, nella quale vi erano il candelabro, la tavola e i pani dell’offerta; essa veniva chiamata il Santo. Potremmo dire i riti.
  • la seconda: dietro il secondo velo, poi, c’era la tenda chiamata Santo dei Santi. La liturgia.
  • E poi c’è un’altra tenda: “Cristo, invece, è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna.

Una tenda mobile, grande, più grande, dove ci stanno tutti.

…quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente?

È la tenda del Verbo che si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi. È una tenda non da campeggio, ma di chi vive per strada.

Anche il Vangelo di oggi viene ad hoc:

Mc 3,20-21 “Gesù entrò in una casa e di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «È fuori di sé»

Il Signore Gesù entra non nella sua casa, e neppure in quella di uno dei componenti della sua famiglia né piccola né allargata. Il vangelo ci mostra il Signore che entra in «una casa» qualunque

che diventa il luogo di annuncio di un modo nuovo di abitare il mondo, dando la precedenza assoluta alle relazioni e non alle istituzioni. Quella in cui Gesù si ferma è una casa aperta, visto che «di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare».

Mi viene da pensare che fosse una casa sulla strada. La «tenda» dell’incontro di Mosè, la tenda dell’offerta del Santo dei santi diventa una casa qualunque, nella cui intimità il Signore nutre la folla che si stringe attorno a lui con la sua presenza che sazia la loro fame di attenzione e di Parola più del cibo. E lì avviene una cosa interessante. La folla, la gente di fuori, periferica lo ascolta. I suoi vanno a prenderlo come si fa con un bambino monello per rimetterlo dentro gli schemi, perché Lui – dicono – è fuori di sé. È la verità più grande che affermano, è l’obiettivo della sua vita e quello che propone a noi: essere fuori di sé, non pensarsi il centro del mondo.

Proprio noi, che ci sentiamo talora come la «famiglia» di Gesù, rischiamo non solo di non capirlo, ma anche di volerlo riportare sotto il nostro controllo con la scusa malcelata di offrirgli la nostra protezione, di sapere ciò che è giusto.

L’atteggiamento del Signore è di chi si sente parte di una famiglia più allargata, ma è venuto tra noi per ampliare il nostro senso di reciproca appartenenza dilatando all’infinito gli spazi della fraternità fino a renderla universale. La «casa» in cui il Signore Gesù continua il suo ministero, cominciato in sinagoga e che risuonerà persino nei cortili del Tempio, diventa una «tenda» piantata nel deserto dei cuori bisognosi di sentirsi finalmente accolti così da potersi finalmente sentire a casa.

Fin dall’inizio il moto dell’associazione Efraim è “dalla strada alla casa, dalla casa alla vita”.

La strada può essere luogo di dispersione, ma anche crocevia di incontri. In un primo tempo ricordo che avevamo la pretesa di togliere i bambini dalla strada, poi abbiamo compreso che quello è il loro habitat naturale, “il richiamo della giungla” lo chiamavamo, quindi si tratta di offrire un’esperienza di casa, di comprendere che quella casa per loro è sempre aperta, ma anche di imparare un modo nuovo di stare in strada. Di entrare in casa per sperimentare un modo nuovo di relazionarsi, di vivere le relazioni per viverle sulla strada. E questo è vero per tutti! Credo che anche le nostre fraternità sono luoghi in cui fare esperienza di relazioni profonde, autentiche, vere, per vivere una fraternità più allargata. Non solo per stare bene tra di noi: anche, ma non solo!

DALLA TENDA ALLA STRADA: FRATERNITÁ IN USCITA

Usciamo come fraternità: anche quando dovessimo uscire da soli, anche quando siamo soli!

Siamo sempre inviati come fraternità, a nome della comunità. Usciamo quindi insieme…SEMPRE!

Non c’è spazio per l’individualismo.

“Li mandò a 2 a 2” per essere…fraternità. E’ la fraternità che annuncia: “Guardate come si amano!”

  1. «Fratelli tutti»,[1]scriveva San Francesco d’Assisi per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo. Tra i suoi consigli voglio evidenziarne uno, nel quale invita a un amore che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio. Qui egli dichiara beato colui che ama l’altro «quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui».[2] Con queste poche e semplici parole ha spiegato l’essenziale di una fraternità aperta, che permette di riconoscere, apprezzare e amare ogni persona al di là della vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata o dove abita. 

In un atteggiamento di …

Speranza

  1. 54. Malgrado queste dense ombre, che non vanno ignorate, nelle pagine seguenti desidero dare voce a tanti percorsi di speranza. Dio infatti continua a seminare nell’umanità semi di bene. La recente pandemia ci ha permesso di recuperare e apprezzare tanti compagni e compagne di viaggio che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. Siamo stati capaci di riconoscere che le nostre vite sono intrecciate e sostenute da persone ordinarie che, senza dubbio, hanno scritto gli avvenimenti decisivi della nostra storia condivisa: medici, infermieri e infermiere, farmacisti, addetti ai supermercati, personale delle pulizie, badanti, trasportatori, uomini e donne che lavorano per fornire servizi essenziali e sicurezza, volontari, sacerdoti, religiose,… hanno capito che nessuno si salva da solo.[51]
  2. 55. …La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa».[52]Camminiamo nella speranza.

CAPITOLO SECONDO: UN ESTRANEO SULLA STRADA

Ricominciare

  1. 77. Ogni giorno ci viene offerta una nuova opportunità, una nuova tappa. Non dobbiamo aspettare tutto da coloro che ci governano, sarebbe infantile. Godiamo di uno spazio di corresponsabilità capace di avviare e generare nuovi processi e trasformazioni. Dobbiamo essere parte attiva nella riabilitazione e nel sostegno delle società ferite. Oggi siamo di fronte alla grande occasione di esprimere il nostro essere fratelli, di essere altri buoni samaritani che prendono su di sé il dolore dei fallimenti, invece di fomentare odi e risentimenti. Come il viandante occasionale della nostra storia, ci vuole solo il desiderio gratuito, puro e semplice di essere popolo, di essere costanti e instancabili nell’impegno di includere, di integrare, di risollevare chi è caduto; anche se tante volte ci troviamo immersi e condannati a ripetere la logica dei violenti, di quanti nutrono ambizioni solo per sé stessi e diffondono la confusione e la menzogna. Che altri continuino a pensare alla politica o all’economia per i loro giochi di potere. Alimentiamo ciò che è buono e mettiamoci al servizio del bene.
  2. 78. È possibile cominciare dal basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito. Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano. Le difficoltà che sembrano enormi sono l’opportunità per crescere, e non la scusa per la tristezza inerte che favorisce la sottomissione. Però non facciamolo da soli, individualmente. Il samaritano cercò un affittacamere che potesse prendersi cura di quell’uomo, come noi siamo chiamati a invitare e incontrarci in un “noi” che sia più forte della somma di piccole individualità; ricordiamoci che «il tutto è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma».[60]Rinunciamo alla meschinità e al risentimento dei particolarismi sterili, delle contrapposizioni senza fine. Smettiamo di nascondere il dolore delle perdite e facciamoci carico dei nostri delitti, della nostra ignavia e delle nostre menzogne. La riconciliazione riparatrice ci farà risorgere e farà perdere la paura a noi stessi e agli altri.

Allora potremmo dire: Annulliamo le nostre singole fraternità e facciamo un’unica grande fraternità, un unico gregge con un unico pastore. È bello a questo riguardo ciò che dice Papa Francesco sempre in “Fratelli tutti”:

Locale e universale

  1. Va ricordato che «tra la globalizzazione e la localizzazione si produce una tensione. Bisogna prestare attenzione alla dimensione globale per non cadere in una meschinità quotidiana. Al tempo stesso, non è opportuno perdere di vista ciò che è locale, che ci fa camminare con i piedi per terra. Le due cose unite impediscono di cadere in uno di questi due estremi: l’uno, che i cittadini vivano in un universalismo astratto e globalizzante, […]; l’altro, che diventino un museo folkloristico di "eremiti" localisti, condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi interpellare da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde fuori dai loro confini».[124] Bisogna guardare al globale, che ci riscatta dalla meschinità casalinga.

E ancora parla di “sapore locale”

  1. La soluzione non è un’apertura che rinuncia al proprio tesoro. Come non c’è dialogo con l’altro senza identità personale, così non c’è apertura tra popoli se non a partire dall’amore alla terra, al popolo, ai propri tratti culturali. Non mi incontro con l’altro se non possiedo un substrato nel quale sto saldo e radicato, perché su quella base posso accogliere il dono dell’altro e offrirgli qualcosa di autentico. È possibile accogliere chi è diverso e riconoscere il suo apporto originale solo se sono saldamente attaccato al mio popolo e alla sua cultura. Ciascuno ama e cura con speciale responsabilità la propria terra e si preoccupa per il proprio Paese, così come ciascuno deve amare e curare la propria casa perché non crolli, dato che non lo faranno i vicini. Anche il bene del mondo richiede che ognuno protegga e ami la propria terra. Viceversa, le conseguenze del disastro di un Paese si ripercuoteranno su tutto il pianeta. Ciò si fonda sul significato positivo del diritto di proprietà: custodisco e coltivo qualcosa che possiedo, in modo che possa essere un contributo al bene di tutti.

CONCLUSIONE:

È questa la fraternità che ci auguriamo, che desideriamo, che ci impegniamo a costruire: in una casa sulla strada, con una chiara identità di famiglia propria che dà uno stile alla nostra fraternità, ma con le porte aperte in entrata e in uscita, per contagiarci reciprocamente nella costruzione di una fraternità sempre più grande.

 

 

 

 

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