Gli “Ultimi” come primi… Evangelizzazione e servizio secondo il Vangelo

Intervento di don Luigi Maria Epicoco, in occasione della festa di S. Maria del Roseto – Avellino – del 7 settembre 2019

Quelli che, credo, dovremmo tenere presente questa sera sono, fondamentalmente, due aspetti, infatti la mia riflessione sarà divisa in due tempi.
Un primo tempo in cui cercheremo di capire che cosa significa “ultimi” che cosa significa la preferenza di Dio nei confronti degli ultimi e una seconda parte in cui capire come l’evangelizzazione ha a che fare con gli ultimi; sperando di venir fuori dalla retorica e dagli stereotipi e capire, invece, come la profezia del Vangelo è sempre stimolante nel comprendere che noi siamo Chiesa e rimaniamo Chiesa solo e soltanto se evangelizziamo e non semplicemente se facciamo delle cose.
Cioè, tutto quello che rende la Chiesa tale, non è organizzare; anche organizzare la carità, o il servizio a qualche cosa, far funzionare una struttura: non è questo il cuore della Chiesa!
Il cuore della Chiesa è che qualunque cosa la Chiesa fa, annuncia il vangelo, cioè il suo fare è sempre mescolato con l’annuncio del Vangelo. Non si può mai separare la Chiesa dall’annuncio del Vangelo.
Mi piacerebbe, allora, riflettere su che cosa significhi tenere presenti gli “ultimi” e capire l’evangelizzazione a partire dagli ultimi.
Cominciamo dall’inizio partendo da un’idea di fondo che ci strappa da una mentalità pagana. Quando pensiamo alla mentalità pagana, non dobbiamo subito a qualcosa che è relegata nel passato o ala gente che magari non frequenta i nostri circuiti; il paganesimo è una visione molto umana di Dio, della fede, della religione.
Quando dico molto umana, significa che nel paganesimo tutto ciò che è di psicologico, di interiore che ci portiamo addosso, lo appiccichiamo sulla divinità, cioè le nostre aspettative su che cosa o chi dovrebbe essere Dio le disegniamo noi, con le nostre mani, con le nostre forze. Quindi, senza rendercene conto, da una parte siamo cristiani, ma non ci accorgiamo che la mentalità con cui siamo cristiani, magari, è una mentalità pagana.
Noi, cioè, non abbiamo ancora conosciuto fino in fondo il Dio di Gesù Cristo, quello che Gesù chiama il Padre, quello che è nostro Padre.
Tutto il cristianesimo è scoprire, nel volto di Cristo, nella relazione con Cristo, un Dio inimmaginabile, non un Dio che ci siamo immaginati noi. Questa è la grande differenza: noi siamo discepoli di un Dio inimmaginabile, non di un Dio che ci siamo disegnati noi a nostra immagine e somiglianza.
Che cosa significa tutto questo? Significa che lo stupore di fondo che accompagna costantemente la nostra fede cristiana, è uno stupore che demolisce.
Demolisce le idee che ci siamo costruite su Dio, demolisce il buon senso che certe volte ci guida nella vita e ci porta, in maniera molto più profonda, a scoprire qualcosa che noi da soli non riuscivamo ad immaginare e che Gesù Cristo, invece, ci ha raccontato.
Ad esempio, quando pensiamo a Dio, lo pensiamo così come ci ha insegnato anche il catechismo: un essere perfettissimo, Dio creatore, Dio che riempie i cieli, il Dio che è grande che è tale perché in Lui sono racchiuse tutte quelle caratteristiche che magari noi abbiamo solo in parte.
Siamo pezzettini di una bellezza, Lui, invece, è la bellezza tutta intera; noi siamo dei segmenti di tempo, di storia, Lui, invece, è infinito.
Però dobbiamo stare molto attenti, perché quando pensiamo a Dio, lo pensiamo come un essere giusto, ma giusto secondo una prospettiva umana, cioè nel senso che Lui tratta tutti allo stesso modo: ecco, questa è una visione pagana di Dio, perché il nostro Dio non è un Dio giusto alla maniera umana, il nostro è un Dio di parte, cioè un Dio che si è schierato.
Un Dio che ha fatto non la scelta di rimanere neutrale, fermo in un posto, di bene a tutti allo stesso modo. No, il nostro Dio ha creato fin dall’inizio delle preferenze: la sua è una preferenzialità che si vede fin dall’inizio.
Se cominciamo a credere in questo, cioè a considerare che noi siamo figli di un Dio che fa preferenze, dobbiamo domandarci che preferenze fa il nostro Dio.
In tutto l’Antico Testamento questa preferenzialità di Dio viene manifestata, solitamente, con una frase che si ripete molto spesso: “Io sono colui che ha cura – dice Dio – dell’orfano e della vedova”. Cioè la sua è una scelta sempre per chi non ha nulla, per chi è ultimo, appunto, per chi non ha chi lo tuteli, chi non ha qualcuno che possa sostenerlo, chi non riesce a portare il pane a casa, chi non ha un padre, chi non ha una madre, chi non ha un sostegno, chi sente di non avere nessuna speranza, dice “io sono innanzitutto il Dio che protegge l’orfano e la vedova”.
Affermare questa cosa significa renderci conto che, se c’è una caratteristica che Dio si porta addosso, è una caratteristica che ha più del materno che del paterno.
E’ molto sbagliato dire che una madre ama i figli tutti allo stesso modo, perché non è così. Ad esempio, se in una casa c’è un figlio che ha problemi fisici, ad esempio un handicap, è inevitabile che la relazione della madre con quel figlio sia più stretta, più intima, più profonda.
Se c’è un figlio che è scapestrato che ha la testa altrove che non riesce a concludere niente nella vita che, magari, si sta facendo del male, è inevitabile che le preoccupazioni di quella donna siano soprattutto per quel figlio.
Quindi vi rendete conto che l’intimità dell’amore si costruisce tutta sulla debolezza: quanto più un figlio è debole, fragile, tanto più è intima la relazione che ha con la madre.
Qualcosa di simile ci dice Dio di se stesso. Ci dice che Lui sì, ama tutti, ma la sua relazione è una relazione di intimità soprattutto con chi sperimenta la debolezza; con chi è sperduto; con chi è spaesato; con chi si fa del male o vive un male; con chi ha la vita rallentata; con chi ha la vita incidentata.
Il nostro Dio è un Dio che costruisce le sue relazioni preferenziali soprattutto con quelli che sono più fragili e più deboli.
Questa concezione la prende tale e quale Gesù in tutto il Vangelo e la contesta, costantemente, agli scribi e ai farisei che si scandalizzano, perché Lui siede a tavola: a tavola di chi? dei peccatori; perché Lui tocca i malati; perché ha a che fare con lo scarto della società.
E tutte le volte che gli fanno notare che Lui si comporta in quel modo dice: ma dovete stare tranquilli, perché io non sono venuto per voi, voi siete i giusti, io sono venuto per i peccatori.
Sono venuto per i malati, voi siete i sani, quindi certamente io non sono venuto per voi.
Quello che tutto il Vangelo ci sta dicendo è che siamo figli di un Dio che fa preferenze: le preferenze di questo Dio sono gli ultimi e chi sono gli ultimi? Gli ultimi sono quelli che sperimentano la fragilità della vita, la debolezza della vita.
Se noi vogliamo entrare in una relazione preferenziale con Dio, dobbiamo domandarci, con molta lealtà, se noi siamo, sì o no, ultimi.
Perché quando pensiamo agli ultimi, pensiamo sempre agli altri; pensiamo a quelli che non hanno il pane che non arrivano alla fine del mese; pensiamo a una situazione di dolore di un nostro vicino di casa o di qualcuno in casa nostra.
Noi abbiamo sempre la concezione di pensare che “ultimo” sia un altro, ma la grande domanda che ci pone il Vangelo è questa: “Noi siamo sì o no ultimi?”.
Perché soltanto se riscopriamo il fatto che noi siamo ultimi, allora possiamo scoprire che con Dio, in realtà, non abbiamo un relazione come tutti gli altri; la nostra relazione con Dio è una relazione preferenziale.
Ma perché Gesù riesce ad avere più feeling con i ladri, le prostitute, con i lebbrosi che venivano scartati dalla società, perchè, giustamente, la loro era una malattia contagiosa e, quindi, venivano fatti fuori dalla società, per non fare ammalare gli altri?
Perché Gesù ha un feeling particolare con queste persone?
Perché queste persone hanno sperimentato, nella vita, un dolore che gli ha tolto tutto o un dolore di cui sono stati loro i protagonisti, loro la causa, pensate a Zaccheo, ad esempio, oppure un dolore che loro hanno subito, pensate al nato cieco, pensate a quell’uomo zoppo che Gesù fa camminare.
Pensate alla vedova di Nain che non ha più il marito e si ritrova anche con il figlio morto, Gesù incrocia la processione funebre di questa donna che sta portando il figlio al cimitero e proprio lì, in quel momento, Gesù si commuove profondamente, tocca la portantina di quel funerale e restituisce quel figlio a quella donna. Perché Gesù fa questo? Perché Gesù, essendo ebreo, profondamente ebreo – e non ha mai rifiutato la sua appartenenza al popolo ebraico -, si avvicina così pericolosamente, vertiginosamente alla morte – perché se tu tocchi la morte diventi impuro-? Perché Gesù si fa così prossimo alla malattia, ai peccati, alla morte? Perché è solo quello il luogo dove noi ci accorgiamo che abbiamo bisogno.
sapete qual’è la più grande illusione di noi esseri umani? E’ crescere, maturare e accorgersi che a un certo punto, in realtà, noi siamo autosufficienti, non abbiamo bisogno di nessuno.
Questo capita soprattutto quando la vita ti gira nel verso giusto: magari sei intelligente, hai la salute, più o meno sei furbo, riesci a cadere in piedi, hai dei talenti, sai fare qualcosa… A un certo punto ti convinci, proprio perché hai tutte queste caratteristiche, che non hai bisogno di nessuno. Significa che tu non hai bisogno nemmeno di Dio, perché di Dio devi avere bisogno se ti accorgi di avere bisogno di Lui.
Tu l’acqua la cerchi se hai sete, se non hai sete, l’acqua non la cerchi, allora è soltanto se tu sei consapevole, se tu sperimenti un bisogno che cerchi anche l’acqua, perché capisci quanto sia preziosa l’acqua dentro la tua vita.
Finchè noi pensiamo che ci basta la nostra intelligenza che ci basta la nostra salute che ci basta il nostro stipendio che ci basta la nostra furbizia… Per dire che siamo felici?
E’ proprio lì il momento esatto in cui noi ci mettiamo, pericolosamente, in una situazione critica, perché basta che succeda nella vita qualcosa di storto: perdi qualcuno, qualcuno ti fa del male, vieni tradito nell’amore, sperimenti una malattia, ti svegli la mattina e le cose non sono più così come tu le avevi lasciate la sera precedente… e lì, in quel momento, tutto crolla, cioè ti accorgi che hai bisogno.
Bisogno di cosa? Bisogno di qualcuno che ti tiri fuori dai problemi? Bisogno di qualcuno che dia tutte le risposte alle tue domande? Anche questa è una visione pagana di Dio!
Noi abbiamo bisogno di Dio, perché Dio è l’unico che può dare significato a ciò che la vita ci riserva, invece, come contraddizione. Dio è l’unico che può riempire di sapore ciò che nella vita, invece, sapore non ha. Pensate al dolore di una madre che perde un figlio; pensate a un ragazzo che sperimenta, a un certo punto, la perdita della propria salute; pensate all’esperienza del fallimento, della debolezza; pensate all’essere lasciati, o abbandonati: ecco, quando noi tocchiamo la fragilità della vita ci accorgiamo di essere ultimi, cioè ci accorgiamo di non essere autosufficienti; lì il cristianesimo comincia a diventare veramente la nostra fede.
Non è che c’è bisogno per forza di sbatterci il muso, per accorgerci di questo. E’ questa la grande furbizia che a volte noi non abbiamo nella nostra vita spirituale.
Noi, in questo contesto, siamo in una famiglia francescana il cui fondatore forse è l’esempio più alto, quello più additato in tutta la storia della Chiesa come l’esempio dell’umiltà.
Francesco è talmente umile che di lui si può dire, senza essere eretici, che è un alter Christus che è un altro Cristo.
Ma che cos’è l’umiltà? L’umiltà è avere la testa un po’ reclinata, storta? L’umiltà è parlare male di se stessi? L’umiltà è semplicemente nascondersi, sminuire? Che cos’è l’umiltà se non accorgersi di avere bisogno. Le persone umili hanno la grande consapevolezza che non bastano a se stesse.
Questa è la base di tutta la vita spirituale e di tutto il cristianesimo.
Se noi non partiamo dall’umiltà, cioè se non partiamo dal nostro essere ultimi, se non abbiamo consapevolezza che Dio è un Dio che fa preferenza e che fa preferenza per gli ultimi e finchè noi non ci scopriamo ultimi, non capiamo con che amore preferenziale Dio ha amato ciascuno di noi.
E proprio perché non lo scopriamo, passiamo la vita a spiare la vita degli altri, ad essere gelosi e invidiosi; come erano gelosi e invidiosi tutti quelli che rosicavano, quando vedevano che Gesù entrava in casa di un peccatore.
A parte che non è vero, perché il Vangelo ci dice che Gesù entrava anche in casa dei farisei. C’è una cena famosissima, accaduta a casa di Simone il fariseo. E’ la famosa cena in cui si intrufola quella donna che comincia a piangere sui piedi di Gesù e bagna i piedi di Gesù con le sue lacrime e li asciuga con i capelli.
Pensate a quanto sia scandaloso quel gesto che accade a casa di un fariseo. E dice il Vangelo che Simone pensa dentro se stesso che razza di profeta è uno che non si accorge che donna gli sta toccando i piedi. Sarà stata una poco di buono del paese. E Gesù, conoscendo quello che gli sta frullando nel cuore e nella testa di Simone, gli dimostra la grande differenza che c’è tra lui che sembra essere giusto, a posto, paga le tasse, va a messa tutte le domeniche, potremmo dire, per l’epoca significa frequentare il tempio, avere le pratiche religiose, lavarsi le mani, fare una serie di performance religiose che dicono che tu sei una persona giusta. Quest’uomo qui che è un commensale che grande differenza c’è tra lui e quella donna, invece, che è una donna poco di buono che sta piangendo sui suoi piedi e gli dice: “Simone, io sono entrato in casa tua e tu non mi hai fatto nemmeno lavare le mani e questa donna, invece, da quando è entrata qua dentro, non smette di lavare i piedi con le sue lacrime. Sono entrato in casa tua e tu non mi hai nemmeno accolto con bacio, con un abbraccio e questa donna, da quando è entrata qua dentro, non smette di baciarmi i piedi. Io ti dico di più, che a questa donna sarà perdonato molto, perché ha molto amato”.
Quant’è difficile per una persona a cui è perdonato poco, amare!
Vi prego, non andate via da questo incontro dicendo: “don Luigi ci sta fomentando a peccare, così che possiamo sperimentare la misericordia di Dio!”. No, don Luigi sta dicendo, a partire da se stesso, a partire da me, che finchè non scopriamo che siamo tutti nella condizione di quella donna; che siamo tutti accovacciati davanti ai piedi di Gesù; che abbiamo tutti bisogno di essere perdonati; tutti bisogno di riconciliazione; che non importa se abbiamo passato la vita seguendo le regole o cercando di essere in un certo modo.
Non importa tanto questo è capire che abbiamo bisogno di qualcuno che ci riconcili con la vita e forse anche con quella gara con cui certe volte viviamo la vita, perché siamo sì bravi, ma perché ci siamo messi a gara con noi stessi.
A volte soffriamo di un narcisismo spirituale che accade più o meno in questo modo: viviamo il cristianesimo, la pratica cristiana, i Sacramenti, come meriti.
Pensiamo che abbiamo un posto d’onore in Paradiso, semplicemente perché non abbiamo mai sgarrato la messa domenicale.
Pensiamo di essere primi davanti a lui, perché abbiamo un servizio nella chiesa, perché siamo codificati in un certo modo, perché siamo catalogati così, perché facciamo questo o quest’altro. No! noi abbiamo un posto speciale nel Suo cuore, perché Lui ci ama soprattutto a partire dalla nostra miseria, no da quello in cui siamo bravi.
E finché noi non facciamo la scoperta di questa fragilità, la scoperta di questo bisogno, finché noi non ripartiamo dall’umiltà – in una parola fratelli miei – finché noi non capiamo che siamo noi gli ultimi, non riusciremo a comprendere il motivo per cui il Padre ha mandato suo Figlio nel mondo.
A morire, per me! Che non merito niente!
Questa è l’esperienza della conversione!
Allora vedete noi non possiamo occuparci dei poveri, pensando che i poveri sono gli altri, non possiamo occuparci degli ultimi, pensando semplicemente che gli ultimi sono alcuni. Ciascuno di noi può essere credibile nel Vangelo, se riscopre l’ultimo che è seppellito dentro di lui.
Uno è credibile nel Vangelo soltanto se comprende che tutto quello che Gesù ha detto nel Vangelo l’ha rivolto innanzitutto a lui.
Questa è l’esperienza straordinaria che fanno i santi. Perché Francesco, certe volte prega e in tutta la sua preghiera piange: piangere di cosa? Piangere pensando a quanto Cristo lo ha amato! Cos’è romanticismo, sentimentalismo? No, quello è il nostro. Noi che cerchiamo nella religione le facili emozioni. I santi non sono persone sentimentali ed emotive, sono persone che sono entrate talmente tanto nella parte più profonda del cuore, da essersi accorti veramente che Gesù è morto per me; per te.
Lo sentono così vivo che non riescono a trattenersi davanti a questo tipo di esperienza,
In questo senso, possiamo essere le persone più in vista; possiamo occupare il posto migliore, nella società o nella Chiesa, importa poco, se non abbiamo e non portiamo costantemente con noi l’esperienza e la consapevolezza che noi siamo ultimi e che abbiamo bisogno di Lui e che non ce ne facciamo niente della nostra intelligenza, della nostra salute, della nostra furbizia, dei nostri talenti, delle nostre lauree, del nostro lavoro, dei nostri soldi, delle nostre case, delle nostre opere, delle nostre idee, se non ci rendiamo conto che innanzitutto Lui, fondamentalmente il Signore è alla base della nostra vita e noi viviamo di questo bisogno, senza vergognarci.
Sapete perché ci vergognamo? Perché il mondo ci dice che finché avremo bisogno, saremo degli sfigati e dovremo imparare a non avere bisogno, dovremo imparare a emanciparci dai nostri bisogni, a non metterci più nella situazione di essere deboli, perché abbiamo bisogno che qualcuno ci voglia bene.
Tu no devi cercare qualcuno che ti vuole bene, devi bastare a te stesso! Ecco la catechesi del demonio.
No, noi abbiamo costantemente bisogno di essere amati! Noi abbiamo costantemente bisogno che qualcuno ci dia le cose più importanti della vita!
Vorrei concludere questa prima parte citandovi un episodio molto bello.
Molti passi del Vangelo sono costruiti su una geografia particolarissima che è quella dell’acqua: sul lago, il lago di Galilea, il mare di Galilea.
E, in quest’acqua, Gesù compie molti segni e molti miracoli. In uno di questi racconti ci sono i discepoli che, con molta fatica, cercano di barcamenarsi nell’acqua, in una barca, mentre hanno una tempesta contro. Nel cuore della notte, Gesù gli va incontro camminando sulle acque.
Immaginate di avere un problema serio, molto serio, di annaspare, di non riuscire ad affrontare questo problema, di sentire che, da un momento all’altro, potete affogare in questo problema e proprio nel momento in cui tutto è più buio, più nero, e più contro di voi, vedete Gesù che cammina incontro a voi. Questo dovrebbe rassicurarvi, anzi dovrebbe dirvi: ah, che bello, finalmente il Signore è venuto a salvarci! La reazione che hanno i discepoli è paradossale ed è la nostra reazione, perché davanti all’esperienza di vedere Gesù che cammina sulle acque, verso di loro, gridano, spaventati, dicendo: è un fantasma!
Perché dicono così? Ma, lo hanno capito o no che quello è il figlio di Dio? Guardate che questi siamo noi, eh! Finché Gesù ci fa il catechismo, lo accettiamo; finché deve spiegarci una parabola, lo accettiamo; finché deve moltiplicare due pani e due pesci, va bene, mangiamo di questi pani e di questi pesci; finché dobbiamo vedere qualche miracolo, va bene, vediamo anche qualche miracolo. Ma quando ci accorgiamo, nelle cose serie della vita, che tutto quello in cui crediamo è vero, è vero, non è solo chiaro, è vero! Fratelli miei, noi siamo spaventati, quando ci accorgiamo che la fede in cui crediamo è vera. Spaventati!
Siamo spaventati quando ci accorgiamo che la nostra preghiera può cambiare il corso delle cose, se fatta con fede. Siamo spaventati da questo!
Di Gesù vogliamo tenerci solo gli insegnamenti, quasi mai lo vogliamo riconoscere come quello che è, cioè il Signore, perché Gesù è il Signore! Gesù è il Signore! Allora il grande portavoce degli amici di Gesù, il grande portavoce di questa chiesa nascente, di questa compagnia un po’ sgangherata, anche se costruita intorno a Gesù, Pietro, dice: Se sei veramente tu, allora fammi venire, fammi camminare anche a me, su queste acque. E Gesù gli dice: prego, vieni!
Allora Pietro scende da quella barca e realmente comincia a camminare su quelle acque, quando, ad un certo punto, si accorge che la tempesta continua ad imperversare. Si spaventa e che cosa succede? – dice il Vangelo – sprofonda nell’acqua.
Sta morendo annegato! E l’uomo Pietro, l’uomo su cui Cristo fonda la sua Chiesa, sintetizza, in una preghiera che ci dice che cos’è l’umiltà e che cosa significa la scoperta di essere ultimi, tutto quello che abbiamo detto fino ad ora.
Pietro dice: Signore, salvami!
Sa che non gli serviranno più i suoi ragionamenti, la sua intelligenza, il fatto che è un pescatore; non gli servono più le sue esperienze, le sue cose. O è il Signore a salvarlo o lui muore.
Questa è l’esperienza di scoprire che siamo ultimi: sentire il bisogno di essere salvati, sapendo che l’unica cosa che può cambiare davvero la nostra vita, l’unica cosa che può davvero riempire la nostra vita di significato, è il Signore!
Finché non sentiamo di essere così bisognosi di Cristo, ancora non abbiamo scoperto quanto siamo ultimi e, quindi, proprio per questo, non abbiamo ancora scoperto quanto siamo amati da Lui. Perché questo fa la differenza nella vita di una persona: scoprire quanto follemente siamo amati.
Scrive Santa Caterina, a un certo punto: Pare – rivolgendosi al Signore – che tu si’ pazzo per le tue creature. Ma che ti muove ad avere così tanta misericordia, se non l’amore.
Vedete cari amici, questo io credo che sia la vera base che non dobbiamo mai dimenticare dentro la nostra vita.
Finché noi non scopriamo di essere ultimi, finché non scopriamo di essere così bisognosi di Cristo, non capiremo niente dell’amore di Dio e proprio perché non abbiamo capito niente dell’amore di Dio, la nostra evangelizzazione è fasulla, vuota, non porta frutto; è il tentativo di raccontare una cosa che non abbiamo mai veramente incontrato dentro la nostra vita.
Capovolgiamo la prospettiva. Ora, se fino adesso vi ho detto che abbiamo bisogno di essere noi gli ultimi che sperimentano questo Amore, domandiamoci: Che cosa significa evangelizzare e portare la buona novella del Vangelo agli ultimi.
Gesù lo spiega così nel Vangelo. Quando manda i suoi discepoli, li manda a due a due – ci sarebbe tanto da dire, anche sulla modalità che sceglie Gesù per l’evangelizzazione – e che cosa il Signore dice che devono fare questi discepoli? Devono annunciare la buona novella del Vangelo e non soltanto devono imporre le mani ai malati e guarirli, liberarli dai demoni, preparare la strada a Lui; li manda nei villaggi davanti a Lui, ma, a un certo punto, gli da’ questa indicazione che io credo che è il cuore dell’evangelizzazione degli ultimi.
Dice: Andate dai malati, da chi soffre e dite: è vicino a voi il regno di Dio.
La sentite la bellezza di questa affermazione? Che cos’è il Vangelo, se non andare da una persona che soffre e dire: guarda che il regno di Dio è proprio vicino a te.
Significa esorcizzare in quella sofferenza l’esperienza della solitudine. E’ dire a quelle persone: tu non sei solo! Tu non sei abbandonato! Tu non sei un errore! Dio non si è dimenticato di te, la tua vita non è un incidente! La tua vita non è soltanto la somma di tutto quello che hai sofferto; è proprio vicino a te il regno di Dio!
Allora evangelizzare significa mostrare questa prossimità e costruire questa prossimità.
Evangelizzare non è tanto dare un contenuto, un’informazione alle persone, noi non possiamo soltanto andare dalle persone e dire: è vicino a te il regno di Dio. Dobbiamo dirlo attraverso noi stessi; la nostra vita deve dimostrare che è vero che il regno di Dio è vicino a lui.
Il primo modo di evangelizzare è quello di costruire prossimità. Un povero, un ultimo non ha bisogno semplicemente di qualcuno che risolva i suoi bisogni, ha bisogno, soprattutto, di non sentirsi solo nella sua esperienza di povertà e di sapere che, se io ho fame, non ho solo bisogno di uno che mi da un panino, ho bisogno che qualcuno costruisca con me una relazione, proprio in quella esperienza in cui sono umiliato, nel non avere il pane, nel non avere il necessario per vivere.
Ora questa è la grande domanda: la nostra evangelizzazione è un’evangelizzazione di servizi o è un’evangelizzazione che comprende che il primo grande alfabeto che il Signore ci chiede di usare è quello delle nostre relazioni. Noi evangelizziamo costruendo prossimità; costruendo relazioni con le persone che vorremmo servire, non semplicemente rapportandoci con i bisogni di queste persone.
Voglio farvi un esempio, vi prego di capirlo, calandolo, poi, nella nostra piccola esperienza.
Immaginate un medico. Che fa un medico? Un medico cura. Ma un medico cura le malattie o cura i malati? Questa è la grande domanda.
Capite che io posso essere medico e rapportarmi alla malattia delle persone, ma non avere nessun rapporto con le persone, ma solo con la loro malattia. Allora posso dare le medicine, posso essere bravo, posso operare, ma quelle persone, molto spesso, in quell’esperienza di dolore, hanno sì la cura, ma si sentono sole.
Allora un buon medico, non è uno che cura le malattie, è uno che ha in mente che cura malati, cioè persone che soffrono. Ora, noi abbiamo dimenticato o ci ricordiamo che noi non dobbiamo essere a servizio dei bisogni dei fratelli, noi siamo a servizio “dei fratelli” che hanno dei bisogni.
La cosa che conta di più non è “le cose” che diamo, ma è noi stessi, noi stessi. In questo senso a noi non piace capire questa evangelizzazione, perché se noi potessimo mettere apposto la coscienza dicendo: “vabbè, abbiamo dato un pacco di viveri, abbiamo risolto il problema”, avremmo messo semplicemente a posto la coscienza. No, ma il Signore non ci ha chiesto questo, non ci ha chiesto “innanzitutto questo”, ci ha chiesto di sporcarci le mani, nell’entrare in relazione con le persone che vogliamo servire.
Questa credo che sia la prima tappa dell’evangelizzazione che ha come obiettivo gli ultimi: costruire prossimità.
Perché dovremmo costruire prossimità? Perché noi dovremmo diventare – uso una parola difficile, poi cerco di spiegarla – “sacramento della Sua presenza”.
Che cosa significa? Amici miei, noi non siamo Gesù Cristo. Significa che dobbiamo far pace col fatto che noi non risolviamo i problemi di fondo della vita delle persone, noi siamo semplicemente ciò che dovrebbe più ricordare a quelle persone che non sono sole, perché qualcun altro, con la “Q” maiuscola, li ama e noi siamo solo segno Suo, ma non siamo Lui.
In questo senso siamo Sacramento., Siamo una grande indicazione che indica che Dio esiste. Sentite come lo spiega bene il vangelo: “Affinché vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,16). Che bello! Questa è la definizione di Sacramento: Vedono me e capiscono che Dio esiste!
Sentite la forza di questa cosa? Vedono me; vedono il mio amore, il mio impegno, la mia prossimità e capiscono che Dio esiste. Non che io sono bravo, ma che Dio esiste!
Questa è la grande sfida dell’evangelizzazione: non portare le persone a noi; non fidelizzarle a noi; non dire: ci siamo noi, abbiamo risolto tutti i tuoi problemi.
Certe volte entriamo in concorrenza nel fare l’unica grande cosa che ci ha chiesto di fare il Signore. Noi siamo meglio, voi siete peggio, io lo faccio così, l’altro lo fa così!
No! Questo significa che stiamo emergendo noi, non il Signore! Perché, se emergesse il Signore, non avremmo più differenze: bianco, nero, arancione, sopra, sotto, io sono di qua, tu sei di Apollo, quell’altro è di Pietro, l’altro è di Gesù, di Paolo. No, perché evangelizzare significa: diventare Sacramento della presenza di Dio nella vita delle persone.
Quella persona che soffre, anche quella persona a cui io non riesco a risolvere tutti i problemi, vedendo l’amore, la prossimità con cui gli voglio bene, dicano: Allora Dio esiste! Dio è presente! Dio è qui!
Allora è vero che il Regno di Dio è qui in mezzo a noi. E’ una roba di cui si può fare solo esperienza, non catechesi, capite! E’ una roba che capisci soltanto mentre la stai facendo, non mentre uno la spiega. E proprio mentre lo stai facendo che capisci che quello che sto raccontando ha una sua verità di fondo ed è vera, perché è verificabile, puoi fare la verifica di quello che ti sto dicendo.
Terzo aspetto: Lasciarsi provocare dagli ultimi.
Cosa significa? Che molto spesso noi abbiamo la nostra idea di come devono essere i poveri che serviamo. Noi abbiamo già deciso come deve essere un drogato, come deve essere una famiglia disastrata, come deve essere un bambino che non va bene a scuola. Noi abbiamo già in mente come deve essere uno che non ha un lavoro.
Abbiamo un’idea e applichiamo le nostre idee alla realtà. Ma, fratelli miei, quello che è vero ad Avellino, non è vero a Milano e quello che è vero a Milano, non è vero a Torino.
Ciò significa che noi dobbiamo metterci in ascolto della realtà che è quello che Papa Francesco cerca di dire costantemente. Dobbiamo lasciarci provocare dalla realtà e capire che magari noi stiamo dando la cosa migliore del mondo, ma non abbiamo ancora capito chi sono le persone che c’abbiamo davanti, perché non le abbiamo mai ascoltate.
Lasciarsi provocare dagli ultimi, significa perdere tempo ad ascoltare gli ultimi, ad ascoltarli, perché l’ascolto è la prima grande forma di carità che ci viene chiesta: ascoltare le persone, ascoltarle.
Lasciarci provocare dagli ultimi, capire che sono loro a dettare il passo, sono loro a dirci quali sono i loro veri bisogni, non le nostre idee su di loro, non i nostri programmi, non le nostre riunioni, non i nostri convegni.
A volte noi abbiamo già stabilito tutto e poi sono loro che devono adeguarsi all’idea che noi abbiamo sviluppato.
Dovremmo avere il coraggio, per evangelizzare, di partire sempre dalla realtà e di accorgerci chi abbiamo davanti.
Faccio un esempio. Se io, a L’Aquila, organizzassi un servizio che porti il caffè caldo ai barboni, sarebbe inutile. Voi sapete che a Roma c’è questo servizio: tanti gruppi vanno a Roma Termini, vanno sotto i ponti, a Tiburtina, le grandi stazioni, le grandi periferie. E questi giovani, di notte, soprattutto quando fa freddo, portano coperte, portano un caffè caldo, portano da mangiare: bello!
A L’Aquila, d’inverno, fa -25°C, -20°C, dove li trovate i barboni sotto i ponti, ditemi? Trovate i ghiaccioli, non i poveri. Non ci stanno lì.
Allora, se io sono partito dal presupposto: adesso noi serviamo i barboni de L’Aquila; non ci sono i barboni de L’Aquila! Però ci sono famiglie divise; però ci sono persone distrutte dalla depressione che il terremoto ha ferito in una maniera stratosferica. L’uso degli psicofarmaci, a L’Aquila, è aumentato del 70%, dopo il terremoto.
capite che noi dobbiamo ascoltare la realtà e dire: questa realtà come posso servire! Non l’idea che mi sono fatto io della realtà.
Lasciarci provocare dagli ultimi.
Quarto punto.
Non dobbiamo mai trasformare il servizio ai poveri in un vanto.
Fratelli miei, lo dico qui, sapendo che nessuno di voi mi fraintenderà. Ma viviamo noi in un periodo in cui va di moda occuparsi degli ultimi; è diventata una moda.
Sapete, noi viviamo di momenti in cui siamo più fissati su un aspetto che su un altro: possono i poveri e gli ultimi diventare una moda? No, mai!
Mai! Perché sono sempre la nostra priorità, non solo in questo momento e per ricordarci che non devono mai diventare una vetrina, mai diventare un vanto, il Vangelo ci dice: “Non sappia la destra, ciò che fa la sinistra” (Mt 6,3).
Non dobbiamo avere paura che il nostro amore sia il più discreto possibile.
Non dobbiamo avere paura di amare, senza apparire.
Uno potrebbe dire: ma, se noi non raccontiamo il bene, poi la gente si convince che c’è solo il male; se noi non raccontiamo il bene, le persone non ci aiutano, non arrivano donazioni…
Si, avete ragione, ma questi sono tutti ragionamenti umani. Se tu credi che Dio esiste e che ti ama e che è provvidente, ama; ama nel segreto, ama senza vantarti, ama senza fare vetrine, ama e basta!
Il Signore si farà strada, troverà Lui il modo di aver cura di quello che stai facendo con tutto il cuore e con tutto te stesso.
Non dobbiamo mai usare i poveri come un distintivo, come una patacca sulla giacca, come una medaglia da ostentare agli altri, perché nessuno di noi può dire: io sono su un piedistallo, gli altri sono lì,perché tutti – lo dicevamo all’inizio – siamo ultimi.
Tutti lo siamo.
Per questo, fratelli miei, vorrei lasciarvi con questa provocazione. Noi evangelizziamo e portiamo la buona notizia del Vangelo agli ultimi, soprattutto quando diventiamo “discepoli del possibile”.
Sapete cosa significa? Che noi siamo diventati bravi a lamentarci; bravi ad analizzare quello che non va; bravi a fare il punto della situazione, ma non abbiamo capito che il Signore a noi chiede solo di fare il nostro possibile.
Vi ricordate la grande catechesi che Gesù fa davanti a cinquemila persone – in realtà sono contati soltanto i maschi, dovete aggiungere donne e bambini – migliaia e migliaia di persone, poi, a un certo punto, si sveglia che vuole dare da mangiare a tutti: ma come si fa a dare da mangiare a tutti?
Gesù non si scompone, dice: qual’è il vostro possibile che cosa avete voi?
Solo cinque pani e due pesci, punto.
Datemeli!
Se volete lamentarvi, potete farlo solo dopo che avete fatto tutto il vostro possibile.
Noi dobbiamo essere i discepoli del possibile.
Se io voglio parlare male della politica, voglio parlare male del Papa, della Chiesa, della comunità, del mio parroco, del mio vicino di casa, di mio marito, di mia moglie, dei miei figli, posso farlo soltanto quando, in coscienza, posso dire: ho fatto tutto quello di possibile, io.
Questi sono i cristiani, quelli che non perdono tempo a parlar male e a lamentarsi, ma fanno il loro possibile, sapendo una cosa che Cristo costruisce cose impossibili sul nostro possibile, cioè Cristo, a partire dai nostri cinque pani e due pesci, può sfamare un’intera folla.
La mia domanda è: Ci crediamo o no?
Ecco, fratelli miei, il problema è sempre lo stesso, è un problema di fede: noi ci crediamo o no che siamo discepoli di un dio così; che siamo figli di un Dio così; che siamo amati in questa maniera, perché evangelizzare, annunciare il Vangelo, senza fede significa essere peggio dei dèmoni, perché almeno i dèmoni facevano professione di fede ortodossa. Tutto il Vangelo è pieno di professioni di fede dei dèmoni, precise, corrette, ma che cosa manca al demonio: la carità; il demonio può anche avere la fede, ma non ha la carità.
Questa è la grande opportunità che è data a noi cristiani, non solo di avere la fede, ma di poter unire alla fede la carità e questo rende noi, tutti come Francesco, tutti degli alter Christus, tutti un prolungamento di quell’amore misericordioso di Dio che si è manifestato nel Figlio suo, Gesù Cristo.

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