Nuovi stili di vita per abitare le distanze… in fraternità

Per affrontare il tema dell’incontro: “Nuovi stili di vita per abitare le distanze nella fraternità”, mi servirò soprattutto di un testo che voi avete sulle Fonti Francescane e da questo testo prendo alcuni frammenti.
E’ un testo straordinario, è quello che noi conosciamo come “Regola non bollata” che non fu mai approvata, per cui dopo si continuò a lavorare, per arrivare ad una Regola che alla fine ricevette l’approvazione di Onorio III.
Questo testo che apre le Fonti è un documento di straordinario spessore, perché è stato scritto nell’arco di un decennio e quindi ci consente di vedere passo dopo passo, i cambiamenti che nel frattempo avvenivano un anno dopo l’altro.
Ed è straordinariamente bello, perché, pur essendo un documento che potremmo dire appartenere al genere giuridico, perché era una Regola, poi, di fatto, testimonia un grandissimo afflato spirituale e forse raggiunge, per me, le parti più belle proprio quando parla dei rapporti fraterni.
Torniamo al nostro tema: Abitare le distanze, quelle distanze che tante volte vengono a crearsi anche tra noi, anche nei nostri gruppi, anche nelle nostre Fraternità. Quante volte, a un certo punto, spesso perché all’origine ci sono delle banalità che poi testimoniano un altro malessere, si creano delle fratture, delle distanze e noi dovremmo fare il percorso per eliminare queste distanze, per abbattere i muri.
Oggi viviamo in un tempo in cui vanno di moda i muri; si costruiscono muri per impedire ad altri di passare. Noi, invece, dovremo essere così bravi da abbattere i muri e costruire ponti, perché noi siamo seguaci dell’unico vero pontefice: Gesù, colui che fa il ponte tra Dio e gli uomini e tra gli uomini tra loro.
Il primo elemento che vorrei mettere in evidenza è che per abitare le distanze, prima dobbiamo abitare noi stessi, se non sappiamo abitare noi stessi, non potremo abitare le distanze, anzi le distanze si allungheranno ulteriormente.
“Abitare se stessi” significa aver compiuto un percorso di riconciliazione con la propria storia e con la propria persona.
Abitare me stesso significa accettare la storia che Dio mi ha dato e stare bene lì dove il signore mi mette, in quella situazione.
Se uno è sempre insoddisfatto, per cui, nella sua vita, aspira a qualcosa in più di quello che ha – il posto di capo ufficio, ad esempio – ma, quando la raggiunge non gli basta e vuole ancora di più, è frustrato nella situazione che vive ed è insoddisfatto perennemente.
E’ come se io ora sono arcivescovo a Benevento, però penso che voglio diventare arcivescovo di Palermo o di Napoli: non saprei abitare la situazione in cui Dio mi ha posto e non sarei riconciliato con la mia storia.
La persona che vive una condizione del genere è un insoddisfatto e quando si è insoddisfatti, quando non c’è pace dentro la persona, alla fine si creano continui problemi con le persone che gli sono intorno; quindi, per abitare le distanze uno deve prima abitare se stesso.
Se non ha fatto quel percorso di riconciliazione con quella storia che Dio gli ha dato da vivere, se uno non ha ancora superato una determinata situazione (questi casi sono frequenti, perché non è facile fare questo percorso), può portarsela dietro per tutta la vita e non abitare mai lì dove sta’, permane quel senso di insoddisfazione e di frustrazione.
Allora questo è il primo punto forte che vorrei mettere in evidenza: per abitare le distanze, prima bisogna abitare se stessi e riconciliarsi con la propria storia.
In questo pongo un’icona che non traggo dalle Fonti francescane, ma dalla storia biblica. Pensate a Giuseppe, colui che i fratelli vendettero.
Conosciamo la fine della storia: quando lui si fa riconoscere dai fratelli che erano atterriti perché non avevano riconosciuto all’inizio quell’uomo onnipotente che avevano davanti, quando lui prorompe in pianto dicendo: “Io sono Giuseppe, colui che voi avete venduto, non abbiate paura, avvicinatevi a me, perché non siete stati voi, ma Dio mi ha mandato qui”.
Noi potremmo dire che era facile, per Giuseppe, agire così, perché ormai era diventato importante e, quindi, poteva dimenticare: non è vero!
Ho conosciuto persone che avevano posizioni elevatissime, dal punto di vista economico e sociale e non erano riconciliati con la propria storia. Stavano sempre a rivangare dei torti che avevano subito vent’anni, trent’anni prima in famiglia; anzi la loro continua ascesa era come una rivalsa, per cercare di sanare questa piaga che non era guarita.
E, invece, Giuseppe dice ai fratelli “non siete stati voi, ma è stato Dio”, cioè ha accettato la sua storia: è un uomo sanato, non c’è più un risentimento dentro di lui, non c’è un rancore, per cui può dire ai fratelli “non siete stati voi”.
Giuseppe dice la verità ai suoi fratelli (cioè che lo avevano venduto), non gli fa sconti, però, nello stesso tempo, è certo che, in fondo, Dio l’ha permesso, perché “…io ora mi trovassi qui per salvare voi e le vostre famiglie”.
Guardate che percorso che ha fatto quest’uomo: è riuscito ad abitare la propria storia, eppure era stato venduto come schiavo, era stato mandato nelle prigioni perché accusato ingiustamente… ne aveva patite di situazioni, poteva dire: “adesso facciamo i conti”…
Giuseppe abita se stesso! E’ riconciliato con la sua storia, per cui può abitare quella distanza che sembrava incolmabile tra lui e i fratelli. Poteva dire: “per voi ho fatto anni e anni di schiavitù, di prigionia, sono stato separato da mio padre…” e invece dice: “Non siete stati voi a mandarmi qui”.
Giuseppe abita la propria storia, per cui la distanza tra lui e i fratelli è colmata, egli è in grado di rifare il ponte.
Vediamo, ora Francesco cosa dice e cosa dicono i frati che stabiliscono i rapporti tra loro come uno degli elementi costitutivi della loro vita.
In fondo già nel nome noi troviamo il programma: sono minori, scelgono di essere minori, ma prima di essere minori scelgono di essere fratelli, perché frater, in latino, si traduce fratello; fratres minores, fratelli che hanno fatto una comune scelta di minorità, quindi nel nome c’è il programma e uno degli elementi che diventa costitutivo è proprio questa dimensione fraterna.
Leggiamo alcuni stralci dal capitolo XI della Regola non bollata che, per me, è uno dei testi basilari attorno ai quali la Regola va costruendosi.
[Fonti Francescane 36] E tutti i frati si guardino dal calunniare alcuno – Siamo a tutti i pettegolezzi che tante volte si hanno nelle nostre congreghe e fraternità – ed evitino le dispute di parole, anzi cerchino di conservare il silenzio – qui non si tratta del silenzio istituito, come per gli eremi, dove da compieta a terza ci doveva essere il silenzio, ma è quel silenzio che io chiamo caritativo, cioè se devi parlare male di qualcuno morditi la lingua piuttosto di proferire parola -, se Dio darà loro questa grazia. E non litighino tra loro, né con gli altri, ma procurino di rispondere con umiltà, dicendo: Sono servo inutile.
Pensate a quante volte le questioni nascono tra noi, perché uno ha fatto qualcosa e sente che non gli viene riconosciuta dagli altri.
[Fonti Francescane 37] E non si adirino… E si amino scambievolmente, come dice il Signore: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate scambievolmente come io ho amato voi». E mostrino con le opere l’amore che hanno fra di loro, come dice l’apostolo: «Non amiamo a parola né con la lingua, ma con le opere e in verità»… Non giudichino, non condannino; e come dice il Signore, non guardino ai più piccoli peccati degli altri, ma pensino piuttosto ai loro nell’amarezza della loro anima
Le distanze si colmano anche così: non giudicando, non condannando, pensando alla trave che uno ha nel proprio occhio, non cercando di togliere la pagliuzza dall’occhio del fratello.
Più avanti il testo che si costruisce a strati dice:
[Fonti Francescane 32] E con fiducia l’uno manifesti all’altro la pro­pria necessità, perché l’altro gli trovi le cose necessarie e gliele dia. E ciascuno ami e nutra il suo fratello, come la madre ama e nutre il proprio figlio, in tutte quelle cose in cui Dio gli darà grazia
L’uno manifesti all’altro la pro­pria necessità che non va intesa solo come la necessità concreta e piccola di ogni giorno, ma come le necessità più profonde.
Tante volte siamo bisognosi di ascolto, di comprensione, di misericordia, di accoglienza, però difficilmente manifestiamo questi bisogni, anzi spesso tendiamo a mascherarci, non vogliamo mostrare le nostre fragilità.
Abbiamo paura che mostrando le nostre fragilità siamo ancora più vulnerabili nelle mani degli altri; non ci sentiamo sicuri.
Spesso mettiamo delle maschere, mostriamo quello che non siamo, per cui tendiamo ad apparire forti, non deboli.
Tutto il Vangelo è un elogio della piccolezza, della fragilità, se vogliamo, assunta da Gesù, ma noi che pure siamo cristiani, di piccolezza e di fragilità non vogliamo troppo sentirne parlare, tendiamo a mostrare i muscoli.
Oggi, poi, va di moda mostrare i muscoli, chi alza i muri, chi minaccia… nessuno vuole mostrarsi debole e fragile.
Eppure quando le distanze vengono abitate e colmate? Quando uno non ha paura di mostrarsi all’altro con i propri bisogni e le debolezze, perché vuol dire che si fida dell’altro al punto che non teme di essere vulnerato dall’altro, nel momento in cui si mostra bisognoso.
E ciascuno manifesti all’altro le proprie necessità… Poter avere la libertà, tra fratelli, di dire: “Sto passando un momento difficile, per questi motivi…”, “mi sento in un momento in cui sono solo, per questi motivi…”.
C’è questa libertà? O non prevale tante volte in noi la maschera, la finzione, per cui quell’apparente vicinanza, in realtà è un incolmabile distanza.
Quando uno può avere il coraggio di mostrarsi debole? Vi riesce proprio quando è forte. Quando uno è forte non ha paura di mostrarsi debole; è il paradosso anche dell’apostolo Paolo che dice “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 12,10).
Ma quando una persona è forte? Quando sta bene con se stessa, quando abita la propria storia, quando è riconciliata.
Finché la persona non abita se stessa, sarà, in fondo, sempre debole, sempre insoddisfatta, sempre frustrata, anche se ha raggiunto posizioni sociali ed economiche di rilievo, si avverte a pelle che c’è qualcosa che non va; non è in pace la persona, per cui, quell’inquietudine che ha in sé, la trasmette all’esterno.
E ciascuno manifesti all’altro le proprie necessità… E ciascuno ami e nutra il suo fratello, come la madre ama e nutre il proprio figlio… Sono passi di una straordinaria forza spirituale.
Nel passo n°20 delle Fonti Francescane, Francesco sta discutendo del rapporto tra i frati tra loro:
Nessun frate faccia del male o dica del male a un altro anzi per carità di spirito volentieri si servano e si obbediscano vicendevolmente. E questa è la vera e santa obbedienza del Signore nostro Gesù Cristo”.
“Faccia del male o dica del male a un altro…”, questo dovremmo leggerlo continuamente a cominciare da noi consacrati; se vuoi sentir parlare male di un prete, spesso lo senti da un altro prete; o un frate? da un altro frate.
Lo stesso potrebbe dirsi di un membro dell’Ofs: chi ne parla male spesso è proprio un altro membro dell’Ofs.
Nessun frate faccia del male o dica del male a un altro anzi per carità di spirito volentieri si servano e si obbediscano vicendevolmente… e questo vale per i frati e per i fratelli dell’Ofs.
...E questa è la vera e santa obbedienza del Signore nostro Gesù Cristo… L’obbedienza non è qualcosa di giuridico per cui tento di salvare la legge, per mettermi a posto con la coscienza: l’obbedienza è la carità!
E’ questa la vera e santa obbedienza, perché l’obbedienza non si concepisce al di fuori di un discorso di carità: questo è quello che la gente vuole vedere da noi.
Noi non dobbiamo fare cose eccezionali, Francesco dice che la vera letizia (fonti Francescane 278) è quando io accetto quello che viene: ecco l’uomo riconciliato con la propria storia, anche se con fatica.
Allora la gente non vuole da noi che facciamo cose eccezionali; ma se davvero ci fosse questa santa obbedienza, quella della carità vicendevole, questo sarebbe l’essenziale.
Questo la gente lo vuole vedere da noi preti, dai noi frati, dai noi membri che hanno professato o che si avviano a professare la Regola dell’Ofs che è in gran parte fondata sulla Regola non bollata di San Francesco che ne costituisce l’ossatura, le grandi citazioni sono prese proprio dalla Regola non bollata.
Concludo con un documento straordinario, cioè la lettera di Francesco ad un ministro.
E’ un documento paradossale, in cui Francesco ha scritto delle pagine molto belle.
Un filologo tedesco, ebreo che scampò all’olocausto scappando dall’università tedesca e andando ad insegnare in Turchia e lì, senza l’ausilio delle grandi biblioteche tedesche, con i pochi libri che aveva, scrisse un libro eccezionale, analizzando solo le opere e le fonti dirette.
Si tratta di Erich Auerbach e il libro è Mimesis. Lui studia come il realismo, la descrizione del reale, appare nella letteratura occidentale.
Partendo dalla letteratura epica e poi fa il paragone anche con la letteratura biblica dell’Antico e del Nuovo Testamento, scrivendo pagine bellissime; c’è una pagina dove analizza il tradimento di Pietro nella versione dell’evangelista Marco.
Quest’uomo che non è cristiano che non era neppure credente, praticante, ma agnostico, scrive una pagina bellissima.
Per dire che letterariamente, quel testo è così reale che sta scritto così, perché i fatti andarono così e, quindi, in qualche modo, indirettamente, documenta la storicità dei Vangeli.
Avanzando nell’analisi della letteratura, quando arriva al medioevo, in un capitolo esamina una lettera di San Bernardo – dove dice che lo stile è ricercato – e poi analizza questa lettera di San Francesco (Lettera a un ministro – n.d.t.), dedicandogli una decina di pagine, pur non avendo tutte le fonti a disposizione.
Se Auerbach avesse commentato il brano in cui si descrive Francesco che mangia nella stessa scodella del lebbroso che è di un realismo impressionante, non so cosa avrebbe scritto.
Questa lettera lettera è indirizzata ad un frate di cui non si conosce il nome: alcuni codici portano una “H”, altri portano una “N”, ma, nei codici medievali – latini, “H” e “N” sono molto simili.
Con la lettera “H” alcuni hanno interpretato Elia che in latino si scrive con la H davanti.
[Fonti Francescane 234]
A frate N… ministro. Il Signore ti benedica!
Io ti dico, come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti sono di impedimento nell’amare il Signore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati – questo ministro soffre proprio per i frati, al punto che voleva ritirarsi nell’eremo – o altri anche se ti coprissero di battiture, tutto questo devi ritenere come una grazia.
E così tu devi volere e non diversamente. E questo tieni in conto di vera obbedienza da parte del Signore Iddio e mia per te, perché io fermamente riconosco che questa è vera obbedienza – ritenere le contrarietà una Grazia. E ama coloro che agiscono con te in questo modo, e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te – non avere attese nei riguardi degli altri. Ognuno ha attese nei riguardi degli altri. Francesco, invece, dice di non avere attese, prendi quello che il Signore ti da -. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori – non pretendere che siano migliori nei tuoi riguardi, prendi quello che ti da.
[Fonti Francescane 235]
E questo sia per te più che stare appartato in un eremo – dice Francesco: vuoi santificarti? Ecco, santificati così -.
E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore ed ami me suo servo e tuo, se ti diporterai in questa maniera, e cioè: che non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato, quanto è possibile peccare, che, dopo aver visto i tuoi occhi – con le parole si può mentire più facilmente che con gli occhi; si parla con gli occhi -, non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede; e se non chiedesse perdono, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attrarlo al Signore; ed abbi sempre misericordia per tali fratelli.
Non c’è miglior commento di questo testo al tema dell’abitare le distanze: la ricetta sta qui! Ma, il primo passaggio è quello di abitare se stessi.

Alcune domande…
Come si coniuga la misericordia, in rapporto a un fratello, con la correzione fraterna?
Rispondo con un passo tratto dalle Fonti in cui un maestro domenicano chiede a Francesco la spiegazione di spiegare il testo del libro di Ezechiele 3,18, proprio sulla correzione, per sapere come lo legge lui. Questo episodio è raccontato da Tommaso da Celano nel Memoriale.
[Fonti Francescane 690]
Mentre dimorava presso Siena, vi capitò un frate dell’Ordine dei predicatori, uomo spirituale e dottore in sacra teologia. Venne dunque a far visita al beato Francesco e si trattennero a lungo insieme, lui e il Santo in dolcissima conversazione sulle parole del Signore. Poi il maestro lo interrogò su quel detto di Ezechiele: Se non manifesterai all’empio la sua empietà, domanderò conto a te della sua anima. Gli disse: “Io stesso, buon padre, conosco molti ai quali non sempre manifesto la loro empietà, pur sapendo che sono in peccato mortale – [magari per timidezza, per vergogna, per quieto vivere] -. Forse che sarà chiesto conto a me delle loro anime?”.
E poiché Francesco si diceva ignorante e perciò degno più di essere da lui istruito, che di rispondere sopra una sentenza della Scrittura, il dottore aggiunse umilmente: “Fratello, anche se ho sentito alcuni dotti esporre questo passo, tuttavia volentieri gradirei a questo riguardo il tuo parere”.
“Se la frase va presa in senso generico, – rispose Francesco – io la intendo così: Il servo di Dio deve avere in se stesso tale ardore di santità di vita, da rimproverare tutti gli empi con la luce dell’esempio e l’eloquenza della sua condotta. Così, ripeto, lo splendore della sua vita ed il buon odore della sua fama, renderanno manifesta a tutti la loro iniquità “.
Francesco lo intende così, correggere anzitutto con il proprio esempio. Giovanni Miccoli, in uno studio di grande spessore, in cui analizzò questo passo, affermò che questa era una spiegazione inedita, nella storia esegetica dell’occidente, per cui non può essere un’invenzione dell’agiografo, perché l’agiografo avrebbe risposto in base ai criteri di scuola. Qui l’agiografo sta riferendo un detto di Francesco che dice: Come correggere? Anzitutto rimproverando con la propria vita.
Ci aiuti il Signore davvero a correggere così!

Tornando al tema principale, abitare se stessi si può dire anche in un altro modo: essere abitati dal Signore, lasciare che il signore abiti in noi, come dice l’apostolo: Lasciatevi riconciliare con Dio (Cor 5,20); fa tutto Lui, basta che voi non gli mettete intralcio.
Certamente è una Grazia che dobbiamo chiedere a Lui e che possiamo ottenere solamente concentrando lo sguardo su Gesù e sul Vangelo, sulla radicale sovversività del Vangelo.
Dovremmo imparare a dire a Gesù: Gesù aiutami a fare come te, a pensare come te, a guardare gli altri come te. E il Signore ci farà la Grazia di accettare quello che viene da Lui, giorno per giorno e la Grazia di seguirlo e, soprattutto, seguirlo in salita.

S.E. Mons. Felice Accrocca
Arcivescovo di Benevento
Incontro Zona Interdiocesana di Avellino
Montefalcione, 30 marzo 2019

Felice Accrocca

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